LA COMPASSIONE: UNA VIA PER IL PERDONO

Settembre 15, 2017Eleonora Ievolella, Perdono

Compatire viene dal latino dal latino cum patior essere con l’altro nel soffrire.
La compassione è l’unico strumento che abbiamo a nostra disposizione per perdonare qualcuno.

Molti di noi, che fanno un percorso di crescita personale o spirituale, si trovano ad essere molto arrabbiati con genitori, parenti o con partner o amici che ci hanno fatto, e forse ci fanno ancora, soffrire. Il problema è che serbare rabbia e rancore per queste persone ci fa rimanere costantemente nella sofferenza, e quindi stiamo sempre male e non riusciamo a liberarci da queste catene.

Perdonare, come dicevo in un mio post precedente (vedi Perdonare… come fare e perché!), è l’unico modo per liberarci e stare meglio con noi stessi.
Ma come fare a perdonare?
Attraverso la compassione.

Avere compassione per qualcuno vuol dire innanzi tutto mettersi nei panni dell’altra persona e magari ripercorrere con lei la storia della sua vita, della sua infanzia.
Scopriremo, sempre, che chi ferisce è stato ferito a sua volta.
È impossibile che una persona che ha avuto molto amore e un’infanzia serena possa infliggere violenza o grandi sofferenze.

Se si può trovare una colpa in chi semina sofferenza è quella di non avere avuto la forza di cambiare, di farsi aiutare. Ma non è sempre possibile farlo, solo pochi decidono di prendersi in mano e di voler trasformare se stessi, certe volte, anche pur lavorando su di sè, vecchie ferite tornano a galla e si impadroniscono di noi contro la nostra volontà.
Più impareremo a perdonare noi stessi più saremo capaci di provare compassione per gli altri, e quindi finalmente a perdonarli.

Certo perdonare non vuol dire farsi trattare male, diventare i capri espiatori di chi soffre e ci scarica addosso le sue sofferenze, o rimanere ancorati a relazioni distruttive: vuol dire prendere le dovute distanze, scegliere di allontanarsi se, per la nostra incolumità fisica e psichica, è importante farlo, ma osservare la situazione con distacco e sentire dentro di noi che anche l’altro soffre e proprio a causa della sua sofferenza sta infliggendo dolore anche a noi.

Può essere utile guardare la persona che ci sta ferendo come un cane abbandonato e ferito che ringhia e morde perché è stato a sua volta maltrattato.

L’altro giorno ho letto un passo molto bello in un libro di Thich Nhat Han (“Quando bevi il tè stai, stai bevendo le nuvole” – vedi link in fondo alla pagina), una testimonianza di Sister Chan Khong proprio riguardo alla compassione:

“Durante la guerra in Vietnam c’erano molti boat people, e un giorno fummo sconvolti venendo a sapere che centinaia di profughi in fuga sulle barche venivano derubati e violentati dai pirati.

Eravamo tutti furibondi con i pirati; Thay, però, dopo svariati giorni di meditazione intensiva, ci disse:

“Non condannateli. Se voi avete un buon Maestro è perché sono nato in un buon ambiente, sono stato cresciuto con amore, ho avuto insegnanti e amici che mi hanno voluto bene; e così sono diventato quel che sono. Io non ho un sé separato, dunque il mio essere è composto di tutti gli elementi di un ambiente così buono; i pirati invece sono cresciuti ignorati dai genitori, non hanno ricevuto alcuna istruzione, nessuno ha insegnato loro ad amare e prendersi cura delle persone; sono vissuti in un ambiente pieno di violenza in cui è normale odiare gli altri, picchiarsi a vicenda: è così che sono diventati pirati.”

Quel che mi ha colpito in questo brano, oltre alla compassione infinita del maestro zen, ottenuta tra l’altro attraverso intensa meditazione, è quando parla del fatto che queste persone hanno un sé separato, scisso. Se, come me, credi che ogni essere abbia una parte di natura divina, l’anima o il Sè, come lo vogliamo chiamare, possiamo notare che le persone che infliggono sofferenze così grandi agli altri, sono separati da questa loro Vera Natura.

Sembra che la violenza, l’indifferenza e la mancanza di amore facciano in modo che l’anima si ritiri dal corpo e che essa non possa più manifestarsi. Ma quelle persone non erano nate così, la sofferenza è stata loro inflitta da altri uomini in catene che si tramandano da generazioni. Come diceva Etty Hillesum in un brano citato in un mio post precedente (vedi “Tutti fanno del loro meglio”), queste persone andrebbero curate prima che diventino un pericolo per gli altri.

Capire questo ci può aiutare a fare un passaggio importante perché solo attraverso la comprensione si può arrivare alla compassione e quindi al perdono. E ci può aiutare a cercare di essere noi i primi a spezzare le catene di sofferenza dentro di noi e di dare amore, o quanto meno far soffrire il meno possibile gli altri.

 

Questo il libro di Thay: Quando bevi il tè, stai bevendo nuvole

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