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STAMATTINA SONO TORNATA A LETTO…

Stamattina sono tornata a letto, dopo aver lavato e vestito Lorenzo, dopo avergli dato gli sciroppi immunostimolanti, e dopo averlo consegnato, imbacuccato come un pinguino, e con due pan di stelle in mano, a suo papà che lo porta presto all’asilo.

E allora? Ti sembra un argomento interessante per scrivere un post?

Beh immagino di sì, ma facciamo un passo indietro.
In un vecchio post dal titolo “Che bello dormire” ho raccontato come, da ghiro che si svegliava alle 11 di mattina, sono diventata una arzilla mamma che si sveglia felice alle 7.00.

In effetti le mie abitudini sono cambiate parecchio da quando c’è Lorenzo e devo dire che avere regolarizzato gli orari mi rende più felice. Però… sì, c’è un però: però ieri sera siamo andati a letto tardi. Dopo i regali di Santa Lucia e dopo aver messo a letto Lorenzo io e Alberto abbiamo fatto le due circa, per dedicarci finalmente ai nostri progetti comuni senza un bimbo che chiede costantemente l’attenzione. E così la sveglia alle 7 di stamattina non è stata proprio facile. Se ci metti fuori zero gradi e la nebbia poi la voglia di tornare a letto è molta.

Mi è capitato altre volte, nei mesi scorsi, di tornare a letto quando ero tanto stanca, dopo che “i maschi” erano usciti di casa, ma mi sentivo talmente in colpa che o non riuscivo a dormire, o facevo degli incubi pazzeschi, o, una delle ultime volte, mi è caduto per terra il cellulare e si è frantumato il vetro e ho dovuto spendere 100 euro per ripararlo. Da allora ho deciso di rinunciare a tornare a letto, mi dicevo al massimo farò un riposino dopo pranzo, ma poi non lo facevo mai, troppo presa da mille cose da fare.

Oggi però qualcosa è cambiato, mi sono infagottata felice sotto le coperte e dopo aver dormito un’oretta sono rimasta ancora lì al calduccio sentendo un senso di rilassatezza, di amore, di coccola che stavo dando a me stessa.

E mi sono detta: questo è l’Amore Incondizionato, questo è volersi bene senza giudizio, senza darmi addosso perché non sto già passando l’aspirapolvere o pagando un f24, o montando un video, volendomi bene lo stesso anche se Lorenzo a tre anni alle 8.20 è già operativo all’asilo, anche se Alberto lavora in banca 10 ore, volendomi bene così come sono senza dover rompere un cellulare perché “io non vado bene”. Stavo lì accoccolata e ho capito perché per tanti anni ho dormito la mattina: perché era un modo per darmi amore, per coccolarmi, per prendermi cura della mia parte bambina ferita, per contattare la mia anima e la mia parte accudente.

Ora so che non tornerò a letto sempre, perché sono molto diversa da allora, ma so anche che se ho bisogno di riposo, se voglio dormire ancora un po’ posso farlo, non cambierà la mia produttività lavorativa, la casa non sarà più splendente, non trascurerò mio marito, mio figlio o le mie amiche, anzi, cullandomi con affetto, come ho fatto oggi, diventerò una persona più felice e saprò dare più amore anche agli altri .

Impariamo a volte a chiederci se il nostro stress e la nostra stanchezza non è bisogno di riposo: invece di perder tempo su internet, sui social, al telefono, chiediamoci se non ci farebbe meglio rallentare e dormire mezz’ora, magari un’ora!
“Permettiti di riposare quando ti serve…
Il riposo è fondamentale per ogni individuo. Ma il riposo non deve diventare pigrizia. Agisci quando è ora di agire.
(….)
Dai priorità alla tua salute.
Il corpo sano ti permette di rendere al massimo della tua energia. Fai delle pause. Curare se stessi e il proprio corpo è un atto d’amore verso se stessi e verso la comunità. Non trascurarti.”
(Dalai Lama)

“Secondo i centri per il controllo delle malattie, un sonno insufficiente è collegato a una serie di malattie e disturbi cronici, come diabete, problemi cardiaci, obesità e depressione.(…)
Siamo una generazione di adulti stressatissimi che cresce figli iperprogrammati.
(…)
Bisogna lasciarsi alle spalle la stanchezza come status symbol e la produttività come valore.
(Brenne Brown,  I doni dell’imperfezione. Abbandona chi credi di dover essere e abbraccia chi sei davvero )

 

Eleonora

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LA RESILIENZA: LA 1ª LEZIONE DI ROCKY BALBOA

Ci sono periodi della nostra vita nei quali tutto sembra essersi coalizzato contro di noi: si buca una gomma dell’auto, una riunione importante in ufficio va male, discutiamo con il nostro capo e la sera litighiamo con nostra moglie, ci ammaliamo e non possiamo partecipare ad una cena con amici a cui tenevamo molto, rimaniamo a casa a guardare la nostra squadra di calcio preferita ma questa perde 4 a 0 il derby…

Spesso capita che le cose negative di susseguano con una sincronicitá che ci sembra quasi diabolica e ci fa esclamare:

“É proprio vero che le disgrazie non vengono mai da sole…”.

Ad esempio a me é appena capitato che mia moglie ha preso l’influenza nel periodo delle ferie natalizie, in rapida sequenza l’abbiamo presa anche io e mio figlio, che sono 4 giorni che ha 39º di febbre.

Naturalmente abbiamo cancellato la vacanzetta prenotata in montagna a Vipiteno perdendo caparra e la possibilità di fare un po’ di snowboard.

Poi mi sono affacciato alla finestra di casa ed ho visto che qualcuno ha colpito lo specchietto della mia macchina frantumandolo in 1.000 pezzi.

Oggi é il 31 dicembre e quindi questo capodanno lo faremo in casa sotto le coperte, e probabilmente non riuscirò neanche a raggiungere i miei amici coi quali avevamo pianificato da oltre due mesi 3 giorni a Canazei dal 2 al 4 gennaio.

 

La resilienza…

Ecco, in questo periodo mi sento un po’ come un pugile nel ‘round’ sbagliato, ossia in quello in cui incassa una marea di pugni e quasi non riesce neanche a capire da dove stiano arrivando.

In quei momenti l’unica cosa da fare é chiudersi a riccio e cercare di ripararsi il più possibile per evitare il colpo del K.O., e resistere, finché non suona la campana, sapendo che se si arriverà al round successivo ce la potremo giocare ancora.

Il successo di Rocky viene tutto da lì: “la capacità di incassare i colpi senza finire al tappeto”, la resilienza appunto.

Sylvester Stallone a trent’anni (e circa 40 anni fa…) aveva capito già tutto e aveva scritto una sceneggiatura e costruito un personaggio tutto incentrato su questa qualità.

Il suo Rocky infatti non era un pugile forte, indistruttibile, veloce ed esperto… era un uomo che si scontrava con pugili professionisti, tecnicamente superiori a lui, ma con un’unica convinzione:

resistere fino al round successivo e finire l’incontro in piedi.

 

Quella era la sua vittoria: tenere duro, sopportare i colpi, andare anche al tappeto, ma riuscire a trovare la forza sempre per rialzarsi.

Nel finale del film Rocky 1 a fine incontro pronuncia la mitica frase:

“Adriana! Ce l’ho fatta!”.

E non aveva mica vinto il match!

Semplicemente era rimasto in piedi per 15 round contro il campione dei pesi massimi Apollo Creed, e aveva così raggiunto il suo obiettivo.

Addirittura in Rocky 2 riesce anche a vincere il titolo, perché, dopo aver resistito 15 round ed essere finito a terra in seguito a uno scambio di colpi insieme ad Apollo Creed, riesce a rialzarsi 1 secondo prima del suo avversario, prima che scadano i fatidici 10 secondi di tempo massimo.

Rialzarsi 1 secondo prima che scada il termine massimo e venga dichiarato il K.O…

 

Questo é un po’ quello che ci serve nella vita.

 

Alcuni dicono “Non mollare mai”.

Nel film di Garrone “Reality” un protagonista ripete in maniera un po’ ossessiva: “Never give up”.

Rocky lo faceva ripetendo a sé stesso “Ancora un altro round…”.

Nei periodi difficili che attraversiamo nella nostra vita possiamo provare a pensare di resistere, nulla resta com’é, tutto cambia, continuamente, incessantemente, tutto passa, dobbiamo solo tenere duro, far passare un po’ di tempo, e continuare a credere in noi stessi, attendere la campanella, quella campanella che segnerà la fine di un ciclo e l’apertura di uno nuovo, più mite e sereno per noi.

 

Auguri a tutti,

per un anno in cui la reslienza ci aiuti a resistere ai momenti duri della vita e ci possa anche sostenere nel raggiungimento dei nostri obiettivi!

Alberto

 

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ESSERE VULNERABILI

Queste vacanze sono state un disastro almeno da un certo punto di vista: io il 25 pomeriggio mi sono ammalata con un’influenza pesantissima che non avevo ricordi di stare così male, la febbre a 39 non l’avevo veramente da secoli.

Poi si sono ammalati a ruota Alberto e Lorenzo.

È saltata a vacanza in montagna con mia sorella e i cuginetti, abbiamo perso 230 euro di caparra e domani passeremo l’ultimo dell’anno a casa.

E sapete cosa vi dico: chisseneffrega.

Pazienza non sono cose gravi, sono pesantezze della vita che puoi accettare facendole diventare meno pesanti o puoi ingigantire arrabbiandoti con te stesso, con gli altri, col fato. All’inizio mentre me ne stavo a letto boccheggiando non ho proprio detto “chissenfrega”, ma iniziavo a sentirmi avvilita, depressa e completamente identificata con la malattia. Poi mi è venuto in soccorso un verso del Quelet citato più volte da Antonietta Potente, la teologa domenicana che ho intervistato qualche anno fa:

“Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo.
C’è un tempo per nascere e un tempo per morire,
un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante.
Un tempo per uccidere e un tempo per guarire,
un tempo per demolire e un tempo per costruire.
Un tempo per piangere e un tempo per ridere,
un tempo per gemere e un tempo per ballare.
Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli,
un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci.
Un tempo per cercare e un tempo per perdere,
un tempo per serbare e un tempo per buttar via.
Un tempo per stracciare e un tempo per cucire,
un tempo per tacere e un tempo per parlare.
Un tempo per amare e un tempo per odiare,
un tempo per la guerra e un tempo per la pace.
Che vantaggio ha chi si dà da fare con fatica?”

Queste parole mi hanno molto rincuorato, e mi sono detta questo è il tempo della vulnerabilità, è il tempo di stare a letto e di lasciare la casa in disordine, di chiedere aiuto e basta; il tempo dell’attivismo, del lavoro, dello sport, degli amici, delle feste, arriverà, ma non è ora!
Accettando la mia vulnerabilità mi sono arrivati aiuti, sostegno, affetto, telefonate, arance, carrube, messaggi e mi sono sentita sostenuta dall’effetto dei cari.
Quando anche Lorenzo è crollato con 40 di febbre che non scendeva ho cercato anche allora di relativizzare, di non ingigantire, di non pensare alle più terribili malattie che si leggono online o alle complicanze dell’influenza, o alla necessità di prendere subito antibiotici o cortisone.

Ho fatto mie la parole del caro amico pediatra Stefano Bondavalli che mi disse l’anno scorso davanti a un’influenza del genere di Lorenzo: ” Eleonora, quanti giorni dura la febbre nell’influenza? Tre giorni e tre notti. Se ti va male 5″. Se ce l’ho fatta io ce la fa anche lui e se non dormo adesso dormirò più avanti.
C’è un tempo per sentirsi vulnerabili.

Penso che molto del nostro lavoro oggi sia imparare ad accettare la nostra vulnerabilità e trarre anche i doni in essa.

Viviamo in un mondo che ci bombarda con immagini Super di come dovremmo essere fighi, forti, attivi, vincenti, sempre sorridenti, e siamo nel periodo storico in cui ci sono più depressi, malati, disoccupati, dipendenti da sostanze e da internet di sempre.

Penso che bisogna opporsi a questi modelli fasulli e controproducenti, portano solo la gente a sentitisi non adeguata e sempre più insicura. Non c’è niente di male a stare male e si può imparare a vivere al meglio questa nostra vulnerabilità semplicemente accettandola con affetto.

Eleonora

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LA GIOIA NEL DARE

Questo Natale sono stato un po’ meno generoso del solito.

Poi, non é che io sia l’esempio della generosità, non mi chiamano San Francesco.

Sono anche Genovese.

Però a Natale, ad esempio, tutti gli anni faccio dei pensierini ai miei colleghi di lavoro.

Non so perché, forse é un’abitudine che porto avanti prima dai lupetti e poi dagli scout.

In quel tempo a Natale ciascuno portava un pensiero, si mettevano in mezzo al cerchio, e poi ognuno pescava un regalino.

Era un meccanismo perfetto, che si autoregolava: non c’era bisogno di sapere in anticipo quante persone ci sarebbero state, se si era in 3 c’erano 3 regali, se in 15 c’erano 15 regali… tanti si era tanti si scambiava e ognuno tornava a casa con qualcosa.

Una piccola complicazione era che i regalini dovevano essere preparati con le proprie mani.

Crescendo poi ho iniziato a lavorare in azienda e, lavorando con tanti colleghi, alla fine mi sono sempre affezionato a molti di loro.

Non lo faccio apposta, sono fatto così, mi affeziono alle persone.

Cosi a Natale tutti gli anni prendo dei piccoli pensierini, come ad esempio delle candeline coi brillantini, delle decorazioni in legno da appendere all’albero di Natale, delle piccole lampadine a forma di stella…, li impacchetto uno a uno come se fosse un rito tibetano, e poi faccio il giro dei piani in ufficio e li distribuisco ai colleghi con cui ho legato di più.

Anche se sono pensierini semplicissimi, ogni volta vedo negli occhi dei miei colleghi la gioia di ricevere qualcosa, una piccola sorpresa, qualcosa di inaspettato, vedo gli occhi della meraviglia, quella che in genere riposa negli occhi dei bambini.

É un bel momento, non costa praticamente niente ma riempie un pochino il cuore.

 

Quest’anno non ho fatto nulla.

 

Forse sono arrivato al Natale un po’ più scarico anche per via di alcune questioni che riguardavano la fusione della mia banca con un’altra banca con una incertezza lavorativa che si é abbattuta un po’ su tutti noi.

Comunque il 23 dicembre mi é venuto in mente: “Uh, i regalini per i colleghi!!!”

Avevo già anche qualcosa che potevo regalare, ma poi l’idea di mettermi lì a fare un sacco di pacchettini… il tempo che avrebbe richiesto questa attività… insomma, alla fine non ho fatto nulla.

Così il 24 sono andato in ufficio, ho fatto gli auguri a voce ai colleghi che ho incontrato e poi a casa.

Apparentemente é andato tutto bene, nessuno mi ha chiesto come mai quest’anno non avevo portato un pensierino… l’avevo fatta franca.

In realtà in questi giorni mi sentivo un po’ più scarico di energia e non capivo perché…

Mi sono reso conto che ero un po’ triste.

Poi ho intuito cosa era successo: per quanto assurdo, dare i regalini di Natale ai miei colleghi mi ha sempre restituito un sacco di energia, molta più di quella che impiego per fare i pacchettini!

Non donare nulla invece mi ha fatto sentire un po’ inaridito, come una pianta che é rimasta senz’acqua.

Ecco, la sensazione é proprio quella: non fare cose per gli altri, non donare qualcosa di noi, ci lascia un po’ più freddi, più distaccati, meno gioiosi e caldi.

Alla fine ho capito che non dono tanto il pensierino che ho acquistato, ma anche il pacchetto, il tempo usato per fare il pacchetto, l’attenzione, il cuore.

E quello che ricevo non é un grazie per il pensierino, ma un grazie per l’amore che metto nel fare il pensierino.

Prossimo anno non mancherò, anzi, perché aspettare un anno: già da domani ci sono mille occasioni per donare qualcosa a chi ci sta vicino, anche qualcosa di piccolo, ma col cuore.

 

Alberto

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I BAMBINI NON MUOIONO

Oggi a pranzo stavo parlando con Eleonora delle mie solite preoccupazioni lavorative quando, a un certo punto, Lorenzo ci ha interrotti:

Lorenzo: “Mamma ma dove sono i tuoi nonni?”
Eleonora: “I miei nonni sono morti”
Lorenzo: “E dove sono?”
Eleonora: “In cielo…”
Lorenzo: “E dove?”
Poi sono intervenuto anch’io:
Alberto: “Da dove sei venuto tu?”
Lorenzo: “Dal cielo…”
Alberto: “Ecco, lì sono i nonni…”
Lorenzo: “E perché sono morti?”
Alberto: “Perché erano vecchi…”
Lorenzo: “E perché i vecchi muoiono?”
Alberto: “Perché sono stanchi, sono molto stanchi e allora muoiono e così poi si riposano…”
Lorenzo: “Io non sono vecchio, io sono un bambino, e i bambini non muoiono!!!”
La sua era una affermazione, lo ha detto sorridendo, felice di aver tratto questa conclusione, ma poi mi guardava, come fa spesso quando trae da solo delle conclusioni e si attende da me una conferma, per essere sicuro che la sua deduzione sia giusta.
In un decimo di secondo mi sono venuti in mente gli incidenti stradali, le guerre, le storie di cronaca nera legate alla malavita, alcuni genitori incoscienti o deviati che hanno causato la morte dei figli, certe catastrofi naturali, o semplicemente la condizione di alcuni bambini in alcuni stati molto poveri del mondo…
Ho sentito dentro di me una grande tristezza, poi ho visto la gioia innocente nel viso di Lorenzo, mi sono fatto contagiare ed ho risposto provando anche ad abbozzare un sorriso:
“Eh sì, i bambini non muoiono…”

Lorenzo ora ha tre anni e mezzo e comincia a farsi quelle domande esistenziali così semplici che quasi non sai dove andare a trovare la risposta.
Sono domande che ti riportano con i piedi sulla terra, domande che parlano dei più grandi misteri della vita, quelle domande che immediatamente ridimensionano qualsiasi altro problema tu stessi affrontando, lo rimpiccioliscono che per ritrovarlo devi usare un microscopio.
Ok, la mia banca si sta fondendo con un’altra, é in corso una riorganizzazione, io non so cosa farò domani, che ruolo avrò, chi sarà il mio responsabile, ma rispetto agli anziani che muoiono ed ai bambini che come angeli prematuramente ritornano in cielo i miei problemi svaniscono come qualche granello di sale gettato nel mare.

Alberto

 

“I bambini non muoiono” ha affermato Lorenzo ridendo quasi a voler tranquillizzare sè stesso.
Un sorriso gelato sul viso mio e su quello di suo padre.
E nei giorni successivi mi rimbombavano in testa quelle parole come un mantra, e a fianco a quelle parole mi si parano davanti le immagini dei bambini di Aleppo come tanti flash del peggior film dell’orrore, le immagini dei piccoli annegati in mare i riportati a riva come rifiuti.
I bambini muoiono purtroppo sia quelli fuori che dentro di noi perché per sganciare delle bombe sui civili o lanciarsi contro un mercatino di Natale bisogna avere il proprio bambino interiore morto dentro, perché non si può uccidere senza avere il cuore chiuso.
Oggi è Natale, il giorno che celebra la nascita di un bambino che aveva Dio dentro, come ognuno di noi potenzialmente ha.
Questa volta non prego Dio come entità esterna ma prego il Dio che c’è in ognuno di noi di fare qualcosa per quei bambini uccisi e per questa umanità morta dentro. Chiediamoci cosa possiamo fare noi ….possiamo fare una donazione, aiutare un bambino in difficoltà, pregare, sostenere gli aiuti umanitari, partecipare a cortei per la pace, qualsiasi cosa che ci dica la nostra anima per cambiare anche solo di una briciola questo mondo.
Facciamo qualcosa per fermare questo terrore e per crescere bambini sani e felici.
I bambini sono quanto di più prezioso c’è al mondo, sono il futuro del mondo.
L’altro giorno sono stata alla festa di Natale dell’asilo di Lorenzo, un momento magico in cui genitori, bambini, maestri e maestre cantavano insieme e accendevano candele come in un rito sacro. Quello è luogo di pace come tanti altri che cresce bambini felici. Ci sono persone che hanno Dio dentro, non ci sono solo persone ferite e cattive.
Sogno un giorno in cui tutti i bambini possano cantare come a quella festa per celebrare il Natale, sogno un giorno in cui tutti gli adulti siano come i maestri e le maestre di Lorenzo e come i genitori che amano, rispettano e ascoltano i loro bambini. Sogno un giorno in cui i bambini non muoiono.

Eleonora

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TU SEI LUCE

Oggi ero un po’ triste, così senza motivo apparente, come a volte mi capita. Allora sono andata a passeggiare lungo il fiume e c’era una giornata stupenda, fredda e soleggiata: c’era aria di neve.

Mi sono seduta sulla sponda a sentire il sole sulla pelle e sono andata dal Saggio. L’esercizio del Saggio è una visualizzazione che ti fanno fare in Psicosintesi: quando hai qualche problema scali la montagna e vai dal Saggio. Ognuno ha il suo Saggio personale perché ognuno di noi è un essere unico. Ho salito la montagna, velocemente, non avevo tempo di mettermi a guardare il paesaggio o fare fatica, sono corsa dal Saggio. Gli ho detto che ero triste, e lui mi ha chiesto il perché. Non sapevo rispondergli, allora mi ha detto che se volevo potevo sedermi lì in braccio a lui: era come un nonno buono e io ero una bambina piccola. Mi ha detto che era un peccato che io fossi triste….”non ne hai motivo, tu sei luce, vai nel mondo e splendi!”. Mi sono sentita subito meglio, poi gli ho chiesto se potevo rimanere ancora lì, in braccio, mi ha detto di sì, però mi ha anche ricordato la mia missione. Dopo un po’ mi sono alzata e ho iniziato a camminare lungo il fiume, ero ancora triste, però mi risuonavano in testa le parole del Saggio e mi davano conforto. “Tu sei luce, vai nel mondo e splendi”.
Poi la giornata è proseguita con la sua routine, sono andata a prendere Lorenzo all’asilo: la maestra mi ha detto che era caduto, aveva un graffio e un brutto bernoccolo in fronte, aveva pianto tanto. Ma in fondo stava bene, per fortuna. Questa sera eravamo io e lui a casa perché Alberto era in piscina. Ho chiacchierato al telefono con un’amica per un po’, poi me lo sono preso in braccio mentre guardava felice il suo cartone preferito, Curious George. Siamo stati lì abbracciati per un bel pò in uno di quei momenti in cui si ferma il tempo. Verso le 10 l’ho messo a letto, e mentre scrivevo le gratitudini sul mio quaderno, ho chiesto a lui qual era stato il momento più bello della giornata (una pratica che facciamo da quest’estate), lui mi ha guardato negli occhi e un po’ in imbarazzo mi ha risposto “quando mi hai abbracciato”, si riferiva a poco prima sul divano. È stato come un tuffo al cuore.
E mentre scrivevo questo post mi è venuto in mente il Saggio, il Saggio che mi tendeva in braccio stamattina…quel Saggio ero io.

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