TUTTI FANNO DEL LORO MEGLIO
Un po’ di tempo fa ho letto un libro di Brenè Brown dal titolo “La forza della fragilità”. Un capitolo che mi ha colpito molto è quello in cui si parla del fatto che “le persone fanno del loro meglio“.
Questa frase penso andrebbe appesa sul frigo e riletta tutti i giorni.
La frase che si usa spesso nei corsi di lavoro personale, quando si tocca la questione di riappacificarsi con i propri genitori, è proprio quella di dire hanno fatto del loro meglio con i mezzi che avevano.
Questa frase la puoi ripetere all’infinito, ma comprenderla veramente, fare la pace e perdonare, forse richiede una vita intera.
La vera compassione nasce dall’aver toccato con mano la sofferenza.
Se hai sofferto capisci che anche gli altri hanno sofferto, e che veramente hanno fatto del loro meglio.
Ma questo non vale solo per i genitori, vale per tutti. Ogni persona che incontriamo fa del suo meglio. Spesso nemmeno si rende conto che ci sta ferendo. Noi stessi feriamo continuamente gli altri senza rendercene conto in modi più disparati: non rispondiamo ai messaggi, non richiamiamo, rispondiamo in modo brusco, alziamo gli occhi al cielo se nostro figlio piange, ci dimentichiamo di avvisare se arriviamo in ritardo, non chiediamo all’altro come sta ma lo sommergiamo con i nostri problemi… e chi più ne ha più ne metta!
Inoltre chi ha più ferite mette più difese: il suo cuore si chiude e per questo non si rende nemmeno conto della sofferenza che infligge agli altri. Non sente.
Se il tuo cuore è chiuso non senti di star male tu ma nemmeno ti accorgi della sofferenza dell’altro.
Se la vita in qualche modo ti fa cadere le difese (in seguito a un lutto, un incidente, una malattia, un esaurimento nervoso, ecc.) improvvisamente senti la tua sofferenza e riesci a provare compassione per gli altri: capisci che anche l’altro provava qualcosa di simile a te e non poteva agire in modo diverso.
Se penso alla mia adolescenza e gioventù sono la prima a rendermi conto di aver fatto soffrire moltissime persone, soprattutto uomini. La mia ricerca di affetto era stata barattata con la seduzione e la ricerca di potere e non mi rendevo conto che illudere tanti spasimanti e usare le persone era fare del male. Il mio maestro di teatro mi chiamava la donna di ghiaccio, io non avevo nemmeno idea del perché.
Con lo sguardo di oggi mi rendo conto che i miei modi erano in parte spietati, ma provo anche compassione per quella mia Io che proprio non aveva idea di ferire, cercava solo un modo per stare a galla. Era stata ferita e feriva a sua volta.
Penso poi, negli anni successivi, di aver riprovato su di me tutta la sofferenza che ho inflitto. Credo in qualche modo alla legge del karma.
Così oggi mi trovo a essere più compassionevole. Ci sono persone che a pelle non mi piacciono, che mi sembrano false, o fredde, o pompate, o accentratrici, però posso dire che adesso tendo a giudicare meno: so che dietro a quei modi ci sono delle ferite, e che vivere non è facile per nessuno.
Ognuno fa veramente del suo meglio, anche se non ammette la sua fragilità, dietro a quei meccanismi di difesa ci sono bambini e bambine feriti che non furono amati e accolti, e ora hanno bisogno di comandare, di tiranneggiare, di darsi un tono per compensare tutta quella insicurezza che c’è dietro.
Giudicare loro fa solo che rimandarci a quanto anche noi in fondo ci sentiamo insicuri e inferiori.
Non giudicare (veramente, e non come precetto moralistico che piomba dall’altro) ci fa sentire nella stessa barca, ci fa empatizzare con quella persona e capire che sta facendo del suo meglio.
Tutti fanno del loro meglio, anche chi fa male perché se fa male è talmente soffrente che nemmeno riesce a sentire il cuore: è talmente soffrente che si allontana sempre più dalla sua Vera Natura. E siccome siamo tutti collegati, ferendo l’altro ferisce ancora immancabilmente sè stesso.
Questo non vuol dire che bisogna farsi maltrattare, è fondamentale proteggersi, amarsi e saper mettere i limiti.
Più ci amiamo più sappiamo se saremo in grado di aiutare qualcuno che soffre o se abbiamo bisogno di proteggere noi stessi, di metterci in salvo, ma questa volta con occhi pieni di compassione.
“Si notava subito un giovane che camminava in su e in giù, con un’espressione scontenta, assillato e tormentato. Cercava in continuazione pretesti per urlare a quei disgraziati ebrei: “Mani fuori dalle tasche per favore..”, ecc. Per me era da compiangere più di coloro a cui stava urlando; e questi, a loro volta, facevano pena nella misura in cui erano impauriti.(…)
E il fatto storico di quella mattina non era che un infelice ragazzo della Gestapo si mettesse a urlare contro di me, ma che io francamente non ne provassi sdegno – anzi che mi facesse pena, tanto che avrei voluto chiedergli: hai avuto una giovinezza così triste, o sei stato tradito dalla tua ragazza? (….) Avrei voluto cominciare subito a curarlo, ben sapendo che questi ragazzi sono da compiangere fin tanto che non sono in grado di fare del male, ma che diventano pericolosissimi se sono lasciati liberi di avventarsi sull’umanità. È solo il sistema che usa queste persone a essere criminale. E quando si parla di sterminare, allora che sia il male nell’uomo, non l’uomo stesso.”
(Etty Hillesum, Diario 1941-1943)
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