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SE SOLO MI AMASSI…

Se ci pensiamo bene, la maggior parte dei nostri problemi deriva dal fatto che non ci amiamo abbastanza.

Sul lavoro spesso pensiamo di non essere degni di riconoscimento, che è una forma di non amore. Con il nostro compagno o compagna molte volte entriamo sulla difensiva e ci attacchiamo a vicenda perché sotto sotto pensiamo che l’altro non ci ami a sufficienza. Anche i problemi con i figli vengono quasi sempre dai sensi di colpa per non essere dei bravi genitori, per non essere abbastanza amorevoli. 

La paura di non essere amati dagli altri viene dal non amore verso noi stessi, per far fronte a questa paura rischiamo di diventare accondiscendenti, a volte troppo a costo di andare contro noi stessi per compiacere l’altro.

Un giorno in cui tutto andava storto mi sono fermata un attimo e mi sono detta:

 “Se solo mi amassi cosa farei di diverso oggi?”.

 E poi ho immaginato cosa sarebbe cambiato nella mia giornata se io fossi riuscita a portare dentro di me dell’amore per me stessa. Mi sono resa conto che sarei andata verso gli altri in modo sicuro, fiduciosa di essere ben voluta (e non come spesso faccio con un atteggiamento difensivo e diffidente). Avrei detto di no a tante cose che non mi andava di fare come litigare con mio figlio per i compiti, avrei saltato magari una cena “delle mamme” se non ero in forma, senza sentirmi in colpa, avrei passato una mezz’ora sul letto in completo relax invece di correre da una parte all’altra della casa mettendo in ordine giocattoli sparsi, scarpe abbandonate, vestiti buttati qua e là. Avrei impiegato mezz’ora di tempo per fare yoga, sarei arrivata in ritardo all’asilo senza troppi giudizi contro me stessa, se mia figlia aveva bisogno di dormire un po’ di più. Magari una sera avrei fatto un bagno caldo lasciando il compito di cucinare a mio marito, e non avrei risposto a una chiamata se stavo facendo qualcosa di importante per non perdere la concentrazione. Mi sarei concessa un sushi take away, e avrei mangiato della frutta per dare più energia al mio corpo. Avrei fatto una passeggiata in centro a fare shopping, e avrei acceso una candela in chiesa. 

Se ci amiamo sarà più facile stare bene con noi stessi e prendere le decisioni giuste per noi e per i nostri cari.

Ma come facciamo ad amarci? 

Si dice che se non siamo stati amati abbastanza da bambini non abbiamo interiorizzato questo amore. Ricordo però qualche anno fa, a un seminario di Psicosintesi, un mio maestro ci disse: “Per quanto pensiate di non essere stati amati, in realtà almeno un po’ di amore, da qualcuno l’avete ricevuto, altrimenti non sareste qui, altrimenti sareste morti”. Io in quel periodo ero molto polemica nei confronti dei miei genitori e non mi sentivo per niente amata, così quelle parole mi sembravano un po’ strane, addirittura poco credibili. A dirla tutta mi piaceva anche un po’ crogiolarmi nel mio vittimismo. 

Poi sono diventata mamma e improvvisamente ho capito che, nonostante le buone intenzioni, quando sei un genitore, finisci per fare mille errori e amare i tuoi figli in moto totalmente imperfetto. Gli errori li fai assolutamente in buona fede, per cui i tuoi figli si sentono odiati anziché amati, ma tu hai veramente fatto del tuo meglio. E allora capisci che anche solo chi ti ha dato da mangiare tutti i giorni, chi è andato a lavorare per poterti comprare le scarpe e il cibo, chi ti ha dato una casa, chi ti ha lavato, asciugato i capelli, accompagnato a danza, ecc. ecc. anche se tu non l’hai percepito, ti ha dato amore, ha fatto tutto questo per amore.

Ho riflettuto effettivamente sulle parole di quel mio maestro, e ho capito che aveva ragione: se sono qui qualcuno, anche se in modo maldestro, mi ha amato. 

Se siamo in vita qualcuno ci ha amato. Qualche persona che si è presa cura di noi, e la vita stessa del resto ha fatto lo stesso.

Ma torniamo alla nostra domanda: come facciamo ad amarci?

Thich  Nhat Hanh, il monaco zen vietnamita di cui ho letto decine di libri, a questa domanda risponde con un sorriso, e dice: “Per prima cosa inspiro ed espiro, inspiro ed espiro”. Se mi fermo a respirare già mi sto amando. Se mi riconnetto con il respiro, se sento di essere consapevole del mio respiro ecco, già inizio a essere in contatto con l’amore dentro di me. 

Se sei consapevole del tuo respiro ti rendi conto che il tuo corpo è un miracolo, afferma Thay, e che tu sei una meraviglia.

Non c’è bisogno che mia madre mi abbia amato o allattato per due anni, non c’è bisogno di avere avuto un padre presente che mi ha insegnato ad andare in bicicletta a sei anni, ma basta respirare. Se imparo a connettermi con il mio respiro mi sto già amando, e allora sarò più capace di fare le scelte giuste per me, saprò dire no, quando devo dire no, e dire sì quando è giusto dire sì!

Qualcuno un po’ ci ha amato, se no non saremmo qui. Ma adesso che siamo grandi possiamo amarci di più noi… e molto meglio di come hanno fatto gli altri. Se ci connettiamo al respiro possiamo sentire pace e amore verso noi stessi e portare questo amore nel resto della giornata.

In un documentario su Thich Nhat Hanh ho visto un giovane fargli una domanda: “Come si fa a fare la meditazione camminata?” (la meditazione camminata è una pratica che ha inventato il maestro zen che ti aiuta a trovare pace e concentrazione mentre cammini). 

E lui rispose sorridendo: “Se riesci a camminare come se tu fossi la persona più felice della terra allora riesci a fare la meditazione camminata”. Quante volte ho provato con fatica a fare questo tipo di meditazione e ogni volta sembravo più che altro uno zombie, perché ero troppo tesa e concentrata a fare bene la respirazione! Poi un giorno ho provato a fare come se fossi stata la persona più felice della terra e improvvisamente sono riuscita a essere presente a me stessa e al mondo. Si potrebbe anche dire: “prova a camminare come se ti sentissi amato tantissimo!”. 

Proviamo domani ad andare nel mondo come se ci sentissimo amati tantissimo, da noi, dal mondo da tutti… ed ecco che inizieremo finalmente a risplendere!

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PILU’, IL MICETTO SALVATO

Mia mamma ha salvato un micetto. Era in vacanza con mio papà a San Zeno di Montagna per stare un po’ al fresco e essere vicini a noi che abbiamo la casa a Torri del Benaco. Lei e tutti i vicini sentivano piangere, piangere, urlare fortissimo un gattino ma non riuscivano a capire da dove venisse quell’urlo. Mia mamma ha già tre gatti a Verona e non aveva voglia di farsi carico di un altro micio, magari malato e denutrito, ma al pensiero che potesse morire stava male e così ha passato tre giorni a cercarlo. Il terzo giorno il micetto è saltato fuori, ma poi era talmente terrorizzato che si è andato a nascondere nella legnaia. Per fortuna, alla fine, ha vinto le sue più terribili paure e, spinto dalla fame e dalla voglia di vivere si è fatto prendere da lei. 

Da qualche parte della sua anima, o del suo istinto di gatto deve avere detto: “o mi fido, o muoio”. E si è fidato. Ed è sopravvissuto.

Ha mangiato, ha imparato subito a usare la lettiera e a fare le fusa, quando lo coccolano vorrebbe ciucciare, perché è piccolissimo, avrà un mese e mezzo, non di più, ma non trovando da ciucciare, va a mangiare un po’ di pappe e poi torna a farsi coccolare. 

Chi crede alle sincronicità della vita sappia che un mese e mezzo fa è morto il nostro gattino preferito, Zuma, che era nato il giorno del compleanno di mia mamma, ed è morto (presumibilmente) il giorno del compleanno di Alberto, mio marito. 

Ed ora mia mamma salva un micetto nonostante le sue resistenze. 

Come dice Alberto Alberti la vita è un susseguirsi di “ferire e curare”, fare male agli altri (nostro malgrado) e cercare di aiutare gli altri. Ferire noi stessi e guarire noi stessi. 

Mia mamma mi ha ferito, proprio per questa sua parte che non vuole occuparsi troppo degli altri, forse perché è sempre stata occupata a tenere buona se stessa, ma mi ha anche curato molte volte come poteva, a modo suo e con amore. Vederla adesso, invecchiata, più dolce, più vulnerabile, ma ancora con la sua forza interiore, capace di salvare un gattino mi ha riempito il cuore di amore. Il fatto che lei abbia salvato questo piccolo è come se avesse guarito una parte ferita mia e della mia famiglia, ancora sofferente per la perdita di Zuma. Certo questo micetto, che con i bambini abbiamo chiamato Pilú, ma che non ha ancora un vero nome, non ci porterà indietro il nostro gatto bianco e peloso dagli occhi azzurri, ma è un segno che la vita toglie e la vita dà in continuazione, che dobbiamo stare aperti e vulnerabili, e fiduciosi che c’è un senso in questo cammino delle nostre anime anche se lì per lì non sappiamo qual è, e non sappiamo a che punto siamo.

Mi piacerebbe prendere un altro micetto, ma sotto sotto so che non è ancora giunto il momento per noi. L’altra mattina mi sono svegliata con quella frase del Piccolo Principe che dice:

“È una follia odiare tutte le rose perché una spina ti ha punto, abbandonare tutti i sogni perché uno di loro non si è realizzato, rinunciare a tutti i tentativi perché uno è fallito. È una follia condannare tutte le amicizie perché una ti ha tradito, non credere in nessun amore solo perché uno di loro è stato infedele, buttare via tutte le possibilità  di essere felici solo perché qualcosa non è andato per il verso giusto. Ci sarà sempre un’altra opportunità, un’altra amicizia, un altro amore, una nuova forza. Per ogni fine c’è un nuovo inizio.”

(Il Piccolo Principe – Antoine de Saint-Exupéry)

Ci sarà un nuovo gattino, ma per ora aver conosciuto Pilù ci ha aiutato ad avere fiducia che c’è sempre un nuovo inizio. Ora Pilù ha trovato una nuova casa lì in montagna dove spero si prenderanno cura di lui con amore…. Ciao piccolo Pilú, buona vita nella tua nuova famiglia.

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Dire SI alla vita

L’altro giorno scorrendo su Facebook inciampo in un post di Alessandro D’Avenia, il noto scrittore/professore quarantenne che apprezzo molto per profondità e anche per alcuni suoi libri. Alessandro scrive in modo molto poetico che ha passato un periodo buio in cui si è sentito smarrito forse anche un po’ disperato… non dice se c’è stato un motivo scatenante di questa crisi, nè se ora sta meglio. Anche una nuova amica di recente mi ha confidato di aver passato un periodo pessimo con attacchi di panico un anno fa e sta ancora lavorando per uscire da questa crisi. Anch’io ho passato almeno tre periodi di crisi pesanti negli ultimi 16 anni.

San Giovanni della Croce, un mistico spagnolo del ‘500 definisce alcuni stati di profonda crisi con il nome “La notte buia dell’anima”. Questo termine viene ripreso da alcuni studiosi umanisti per indicare un periodo di desolazione e disconnessione spirituale, seguito poi da una profonda crescita spirituale. Qualcosa nella tua vita non va più e ti senti perso, però aneli a una felicità, a un paradiso perduto… senti che c’è qualcosa che ti chiama, anche se non sai cosa. 

È quella sensazione, quel ricordo di aver assaporato il miele della vita a darti la spinta per uscire dalla crisi, per chiedere aiuto, per cominciare un percorso di crescita personale. 

Al di là delle crisi esistenziali, dei momenti di malinconia, anche quando a qualcuno diagnosticano una malattia mortale, quando temiamo per la morte di una persona cara, o quando noi stessi ci ammaliamo e pensiamo che non avremo più tanto tempo per vivere… ecco, lì sentiamo quell’amore per la vita, quel senso di amore incondizionato per il Tutto e per le persone intorno a noi, un attaccamento a ogni istante… siamo quasi distrutti dalla nostalgia per qualcosa che abbiamo, ma che potremmo non avere più. 

È come se in quei momenti si captasse improvvisamente “il senso”: amiamo  la vita così com’è con tutte le sue imperfezioni e i suoi punti interrogativi. 

Mia nonna materna aveva tre figli: mia mamma, mio zio Ernesto e il più piccolo che si chiamava Gino. Ogni tanto prendeva le mani dei suoi tre figli e le stringeva forte, formavano un cerchio e lei diceva: “facciamo la gioia di vivere!!” In quel momento lei era felice, era connessa ai suoi bambini e alla vita. Poi Gino a 14 anni è morto in un incidente, è stato schiacciato da un camion mentre era in bicicletta in una strada di montagna. Quel cerchio si è rotto. Mia nonna dopo diversi anni è riuscita a uscire dalla sofferenza di quella perdita anche se una parte del suo cuore è andata via con lui. Lei amava la vita comunque, lo si leggeva dai suoi occhi, anche mia mamma ama la vita nonostante le sue sofferenze, e mio zio ha una forza unica: è uno che si è sempre rimesso in piedi. 

Anche se una parte di noi può essere disperata c’è un’altra parte che ama comunque la vita. Quella parte è la nostra anima. 

E la nostra anima si manifesta nei rapporti con le persone, negli sguardi di commozione di due anime che si riconoscono, nelle risate improvvise, nei bagni al mare, nei cibi prelibati, l’anima si svela quando guardi una persona cara e improvvisamente senti di amarla con tutti i suoi “difetti”: quel modo di camminare, quella schiena curva, un dente storto, degli occhi che brillano, un’espressione conosciuta del volto. 

Mi è successo tre volte di provare un amore incondizionato verso qualcuno, come una sorta di illuminazione. Cercherò di spiegarlo perché forse è successo anche a te, e allora mi capirai. 

Una volta, quattro o cinque anni fa, ero in motorino e ho incrociato mio padre che andava al cinema: camminava un po’ zoppicando per via del ginocchio malandato, camminava con la sua andatura tipica, rigida e un po’ barcollante, e ho sentito improvvisamente di amarlo così nella sua totalità, un amore sconfinato misto alla paura di perderlo. 

Qualche mese fa guardavo mio marito Alberto mentre camminava davanti a me, stavamo andando a prendere la macchina per andare in spiaggia, era abbastanza carico: portava le borse del mare, i gonfiabili per i bambini, forse anche l’ombrellone. Ho visto le sue gambe con il polpaccio ben formato che si chiude nella caviglia sottile e le Birkenstock, che gli avevo regalato qualche anno fa, e che si è “arreso” a usare da poco, nonostante diceva che non le avrebbe mai messe perché “erano da tedesco”. Anche in quel momento mi è passata una folgorazione per il suo essere unico, per il suo essere speciale così com’è, per tutto il tempo passato insieme, una commozione dell’anima, un amore incondizionato.

E, sempre di recente, era a cena da noi la mia amica Anat: in cucina c’erano 35 gradi, avevamo cucinato insieme il riso e le verdure, si sudava, lei raccontava le sue cose con il suo impeto, con il suo accento israeliano, con quel modo di gesticolare e di alzare la voce, e ridere, e di giustificarsi… non so,  è difficile da spiegare, ecco anche lì ho sentito un tuffo al cuore, ho improvvisamente capito la meraviglia di questo essere unico, con le sue forze e le sue fragilità, con la sua tenacia, e la sua debolezza, il suo essere “lei”.

Forse questo amore per la vita si può provare quando hai conosciuto anche la sofferenza, quando l’hai accettata e in qualche modo sai che fa parte di noi, che non va combattuta, che non va respinta o ignorata, ma va abbracciata con grande compassione per la nostra natura umana. 

Quando la accetti in modo incondizionato come dice Alberto Alberti quando dici un grande SI alla vita, nonostante tutto.

Penso che il mondo dell’Aldilà sia un mondo di amore incondizionato, un luogo dove siamo già stati e dove torneremo un giorno, ma la vera lezione è imparare a vivere con passione senza scappare da tutto quello che la vita ci da.

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ZUMA: IL CUCCIOLO CHE ORA NON È PIÙ CON NOI.

Zuma era il nostro cucciolo di 6 mesi.

Era un bellissimo Ragdoll bianco con gli occhi azzurri chiarissimi. Era un giocherellone (come tutti i cuccioli) e veniva a dormire spesso vicino a me. La mattina mi svegliava anche perché voleva la scatoletta di tonno naturale.

Era un gatto che, insieme a suo fratello Morpeco e sua sorella Sky, era nato in casa nostra.

Sua mamma, Bijou, aveva un anno e mezzo quando è nato ed ha partorito in camera nostra in una scatola che avevamo preparato apposta. Bijou ha leccato ogni gattino appena nato e poi li ha allattati per tre mesi.

Una mamma perfetta.

Zuma era il più sano di tutti i cuccioli, quello che era cresciuto di più e che si era reso indipendente prima di tutti gli altri.

E’ morto in un incidente domestico mentre eravamo in vacanza all’Isola d’Elba, proprio il giorno del mio 47° compleanno.

Fino a che non ho saputo la notizia stavo passando una normale giornata di mare nella spiaggia di Marciana Marina, avevo sentito qualche amico e avevo risposto a un po’ di messaggi di auguri.

Ero tranquillo, da qualche anno non attendo il compleanno con un’ansia particolare: non mi eccita particolarmente compiere un anno in più. Quando ero più giovane invece ero molto più entusiasta per il giorno del mio compleanno. Ma va bene così.

Poi la brutta notizia.

L’ho vissuta in diretta, perché la signora delle pulizie che andava a dare da mangiare ai gatti mi ha chiamato sul cellulare per dirmi della situazione: Zuma era incastrato nella portafinestra basculante, ma non sapeva da quanto tempo, fatto sta che era tutto duro.

Era già morto.

Le ho detto di toglierlo subito da lì, ma lei piangendo mi diceva che non se la sentiva, che aveva chiamato suo marito che stava arrivando e lo avrebbe fatto lui.

Comunque non c’era già più niente da fare.

Avevano aperto quella porta basculante che dà su un balcone perché in quei giorni a Verona faceva moltissimo caldo. Pur se c’erano altre finestre aperte e anche il balcone della cucina dove potevano andare in terrazzino, avevano pensato che aprire anche quella portafinestra avrebbe fatto ‘corrente’ e favorito il ricircolo d’aria.

Invece Zuma ha pensato che fosse una buona idea saltare per uscire nel balcone della camera. Poi in qualche modo è rimasto incastrato lì e non è più riuscito a districarsi.

Sono rimasto scioccato.

Ho preso atto della notizia e con Eleonora abbiamo chiesto se potevano seppellirlo, lei e il marito, per fare un piccolo rito in onore della sua vita.

La tristezza poi mi ha preso, ed ancora forte in me.

La mente ha cominciato a interrogarsi su tutte le responsabilità che avevo e le cose che avrebbero potuto evitare un incidente del genere.

Il vicino di ombrellone in spiaggia che ha sentito la telefonata appena ho messo giù si è presentato: mi ha detto che era un veterinario e che purtroppo è successo già ad altri gatti di morire così. Poi sua moglie ha chiamato a casa ed ha detto alla vicina di chiudere la porta basculante che avevano lasciato aperto a casa loro (hanno un gatto cucciolo di 3 mesi). Ha detto che bisogna chiudere anche i water, perché alcuni cuccioli ci finiscono dentro e non riescono più a uscire, e anche la lavastoviglie e l’oblò della lavatrice. Alcuni gatti entrano nella lavatrice e i proprietari non se ne accorgono e poi le fanno partire coi gatti dentro. Sembra una roba da cartone animato invece succede veramente.

Non racconto queste cose per spaventare nessuno, ma per aumentare la consapevolezza di chi legge e che ha gatti.

Io non sapevo questi pericoli per i nostri piccoli animali domestici. Penso che dirlo ad altre persone possa servire a salvare la vita ad altri animali.

Se conoscete persone che hanno gatti condividete questo post o avvisatele di questi potenziali pericoli, soprattutto quando si va in vacanza e li si lascia da soli.

Quando capitano eventi come questi proviamo diverse emozioni e formuliamo più o meno gli stessi pensieri.

  1. Colpevolizzazione (RABBIA):
    1. “E’ colpa mia… se avessi detto alla signora delle pulizie di non toccare le finestre!”, “Se avessi fatto una vacanza di una settimana anziché due settimane…”, “Se avessi messo delle telecamere in casa mi sarei potuto accorgere di quello che stava succedendo e intervenire per tempo…” “Se non fossimo andati in vacanza con un cucciolo di 6 mesi in casa…” “Se avessimo preso una persona più esperta per dare da mangiare ai gatti…”. Alla colpevolizzazione si associa anche un senso di inadeguatezza: avrei dovuto proteggerlo, era solo un cucciolo, non sono stato in grado di farlo, non sono un bravo padrone di animali…Se, se, se, ma come mi dicevano da piccolo coi “se” non si cambia la storia…
    2. “E’ colpa della signora delle pulizie”, “E’ colpa di mia moglie che ha detto alla signora delle pulizie di aprire la finestra”, “E’ colpa dei veterinari che non mi avevano detto del problema che possono costituire le porte-finestre basculanti”, …
      Dare la colpa agli altri è inutile come incolpare noi stessi. Non è detto che gli altri abbiano delle responsabilità maggiori o minori delle nostre. Prendercela con noi stessi o gli altri non cambia comunque lo stato delle cose.
  2. Rimozione:
    1. “Vabbè, è successo quello che è successo, pazienza, indietro non si torna ed è inutile stare a crogiolarsi sul passato…”, “Sei mesi fa non avevamo quel gatto, ora non c’è più, è come se non ci fosse mai stato: rispetto a un anno fa non è cambiato niente…”.
      Invece dentro di noi qualcosa è cambiato… perché nessuna persona o animale entra nella nostra vita e se ne va senza lasciare traccia, lo sa bene anche chi ha perso un amore…
  3. Senso di impotenza (TRISTEZZA):
    1. questo è l’ultimo stadio delle cose, delle volte anche uno dei primi.
      Mentre la signora delle pulizie mi diceva che non si sentiva di togliere Zuma immediatamente da dove l’aveva trovato mi sono sentito maledettamente “impotente”, perché io raccogliendo tutto il coraggio possibile lo avrei fatto, ma da una spiaggia a 400 Km di distanza (e con un traghetto di mezzo) mi era impossibile farlo. Quando poi mi hanno confermato che non c’era più niente da fare mi sono sentito nuovamente impotente: Zuma è morto, non si può tornare indietro ed io non posso più fare niente per evitare quello che è accaduto. Devo prendere solo consapevolezza della realtà.
      In genere è proprio in questo stadio, quando ci entriamo profondamente, quando la mente smette di scappare copevolizzando noi stessi o gli altri e quindi smette di rifugiarsi nella rabbia, o quando smette di rimuovere, che in qualche modo la tristezza prende il sopravvento e qualcosa in noi si scioglie e riusciamo a piangere e a sfogare la sofferenza che affligge il nostro cuore.

Poi si torna alle relazioni, si fanno i conti con la nuova quotidianità, e quando si parla con gli amici e i parenti del lutto che ci ha afflitto ecco che ci vengono raccontate storie di perdite patite dalle nostre persone care. Purtroppo in molti, prima o dopo, vengono a contatto con sofferenze simili, e questo non ci consola, ma ci rende tutti più vicini, essere umani che condividono le stesse gioie e le stesse afflizioni.

In qualche modo ci si sente meno soli nel proprio dolore, e più vicini agli altri.

La mia riflessione finale è di carattere spirituale: ogni anima qua sulla terra ha un suo destino, ha un suo percorso ‘imperscrutabile’ che in qualche modo deve compiersi.

Come la nascita è avvolta nel mistero così lo è la morte. Non è neanche nostro diritto, né tantomeno in nostro potere, pensare di dover impedire alcuni avvenimenti, pur dolorosi, che possono capitare nelle nostre vite.

“Non abbiamo il potere di trattenere nessuno. Abbiamo solo il dovere di lasciargli bei ricordi.”

Antonio Curnetta

E tu, Zuma, ci lasci tantissimi e tenerissimi ricordi.

Buon viaggio cucciolo, a te e alla tua luminosissima anima,

Alberto

 

“Io mi dico è stato meglio lasciarci
Che non esserci mai incontrati

“Giugno ‘73” – Fabrizio De André
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IL POTERE DELLA PREGHIERA

Con l’atto del pregare ho sempre avuto un rapporto intermittente: anni in cui pregavo tutti i giorni, anni in cui non lo facevo affatto.

 Ho sempre ammirato mia nonna Gianna che pregava con costanza, al mattino appena sveglia e la sera prima di dormire, e nell’ultimo periodo della sua vita andava in chiesa tutti i giorni a “dare un salutino alla Madonna”. La sua serenità e il suo ottimismo, la sua forza interiore derivavano,  secondo me, da queste pratiche quotidiane. 

Quando preghi in modo continuativo per un periodo abbastanza lungo in effetti ti senti più sereno, c’è una sorta di ottimismo dentro, ti senti protetto e connesso con la dimensione spirituale. 

Negli ultimi anni sono stata così presa dalla gestione dei bambini e degli impegni quotidiani che non pregavo quasi mai, o solo nei momenti di grosse difficoltà come quando avevo paura per la salute mia o di qualcuno, ecc.

Poi, a febbraio, c’è stato il Coronavirus: ce lo siamo presi tutti in una forma un po’ pesante, non tanto per i sintomi in sė, ma i bambini hanno avuto la febbre molto alta, e anche Alberto, io avevo solo mal di gola e un po’ di febbre, ma una spossatezza da far fatica a svuotare la lavastoviglie. Siccome tra me e Alberto ero quella “che stava meglio” ovviamente mi sono fatta carico io di tutto, nonostante questa stanchezza: dalle notti sveglia per curare i bambini, a mandare avanti la casa, a preparare da mangiare, parlare con i medici, procurare e somministrare le medicine, ecc.

E così al 5°- 6° giorno non ne potevo più, mi sentivo completamente svuotata di energia e da ogni risorsa, come se oltre alla stanchezza ci fosse qualcosa che mi voleva portare via l’anima, la mia forza interiore. Allora ho chiamato Marco, un mio vicino di casa, molto saggio e molto religioso: anche lui aveva avuto il Coronavirus e, a circa settant’anni, lo aveva passato da solo chiuso in casa per tre settimane.

L’ho chiamato e gli ho chiesto un consiglio “spirituale”, e lui mi ha detto: “Come sei messa con la Madonna, i santi, ecc?”, io gli ho detto che pregavo spesso mia nonna, per me lei è il tramite con la Madonna. Lui mi ha detto di parlare con mia nonna, ma anche con la Madonna, di raccontarle quello che stava succedendo e di chiederle aiuto. L’ho ringraziato, mi sono ritirata nella mia camera e ho seguito il suo consiglio, così ho chiesto aiuto e protezione a Lei e a mia nonna. E magicamente il giorno dopo ho iniziato a sentirmi meglio. Mi sentivo di nuovo nel mio corpo e sentivo “qualcosa”  lassù che mi proteggeva. 

Ormai sono passati un paio di mesi dal Covid: mi sono però di nuovo avvicinata alla preghiera. Certo fare meditazione, scrivere le mie pagine del mattino, fare yoga, sono tutte pratiche che mi aiutano a essere centrata e a vivere serena nel marasma della vita…. ma la preghiera ha come una marcia in più… la nonna Gianna che andava tutti i giorni a salutare la Madonna lo aveva capito bene.

Ora, quando al mattino esco a portare Luce all’asilo ho finalmente deciso anch’io di passare a dare “un salutino alla Madonna”. 

Qui vicino a casa mia c’è un luogo sacro. Si chiama la Grotta della Madonnina: dentro a un piccolo cortile in mezzo ai palazzi, tra le palme rigogliose è nascosta una piccola grotta con la  statua della Madonna e quella di una donna inginocchiata in preghiera, ci sono tantissimi fiori portati dai fedeli e tante candele rosse accese. Sembra che questa Madonnina abbia protetto i contadini che la pregavano durante la seconda guerra Mondiale, evitando che in quella zona venissero colpiti dalle bombe. Dicono che, quando i tedeschi fecero saltare i ponti, la grotta crollò ma le statue, pur essendo di gesso, rimasero intatte. La grotta fu poi spostata dalla sua sede originaria e le statue ricostruite in marmo. 

Il fatto che sia un luogo di culto all’aperto lo rende speciale, ricorda anche i templi orientali come quelli che ho visto a  Bali o in Thailandia, per questo è frequentato da tanti singalesi o filippini. Quando piove, quando tira vento, quando entrano i raggi del sole… in ogni momento senti forte la Natura e la sua sacralità.  

Per me questo luogo mistico è perfetto perché unisce il mio amore per l’Oriente e la spiritualità buddhista, con la tradizione cristiana che mi ha tramandato mia nonna. Ogni tanto porto anche i bambini che amano accendere la candela e dire una preghiera. Da quando ho introdotto questa pratica nella mia giornata mi sento più felice e connessa e ringrazio tutte le persone che ho incontrato nel mio cammino che mi hanno trasmesso un po’ della loro fede.

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PUO’ ESSERE UNA GIOIA ACCOMPAGNARE IL FIGLIO A CALCIO?

Stamattina alle 9.00 dormivo profumatamente, senza sentirmi in colpa neanche inconsciamente perché oggi è sabato.

Poi una voce: “Papà, sveglia…”.

Apro un occhio. Lorenzo che mi guarda.

“Ma cosa c’è Lorenzo, oggi è sabato non devo portarti a scuola… Non puoi lasciarmi dormire…?”.

La mia più che una domanda era una supplica, considerando che avevo accumulato un po’ di sonno arretrato dalla settimana scorsa. In più ieri sera sono andato a giocare a water basket in piscina e, tra allenamento e successiva pizza con la squadra, sono andato a letto alle 2:00 A.M.

“Ma oggi ho la partita di calcio!”.

Cavolo, è vero, sabato mattina da quest’anno spesso ci sono le partite della squadra di calcio dove gioca Lorenzo.

Mi alzo di soprassalto perché ero convinto di essere in ritardo, ma dopo un rapido check ho visto che la convocazione era alle 10:30 e quindi non dovevamo correre.

Però mi dovevo alzare.

Essere genitori vuol dire anche questo: addio alle dormite del week end di una volta.

D’altra parte, come io vado in piscina, penso sia giusto che anche i miei figli facciano qualche attività che gli piace. Non che Lorenzo sia un talento a calcio, ma ho sempre favorito questo sport perché sta all’aperto – e nel periodo Coronavirus non doveva tenere la mascherina – e impara a giocare con gli altri, oltre a farsi un pochino di fiato.

In più poi si sono spostati nella scuola di calcio dove gioca lui anche altri suoi compagni di classe, così alla fine per loro è anche un ritrovarsi tra amici.

La cosa bella è che se entri nel flusso della vita alla fine ci guadagni anche tu.

Infatti i papà dei suoi amici sono miei amici (dopo 3 anni di elementari ed esserci visti per lo stesso tempo tutte le mattine quando li portiamo a scuola). Tanto che in questi anni siamo riusciti a organizzare e organizziamo cene fuori e partite di calcetto tra noi.

E così quando si sta lì ad aspettare che i bambini facciano le loro partitelle, noi un po’ li guardiamo, un po’ chiaccheriamo e un po’… giochiamo a pallone!

Io ed un altro papà abbiamo coinvolto un po’ di fratellini che erano venuti al campo ma non potevano giocare con gli altri e ci siamo messi a giocare in un praticello con un pallone recuperato al volo.

Ho sudato come un bambino, il prato era un po’ bagnato dalla pioggia di ieri sera così mi sono sporcato scarpe, pantaloni e felpa, ma ci siamo divertiti come se fossimo andati lì apposta per giocare.

Da bambino i miei non mi accompagnavano a fare attività.

Abitavo a Genova e mi ricordo che intorno ai 6 anni facevo Judo. Andavamo a lezione a piedi con mio fratello di sera attraversando anche una galleria piena di macchine e fumi. Non avevo paura, ma non era neanche tanto bello andarci “da soli”.

Infatti dopo poco più di un anno abbiamo smesso.

Anche ai lupetti, a 9 anni, l’andata la facevo da solo.

Attraversavo un po’ di vie del centro il sabato pomeriggio. Lì mio fratello non veniva così andavo io. Ai lupetti mi divertivo. Poi veniva mia madre a prendermi la sera che era buio quando avevamo finito.

Lorenzo lo porto a calcio da quando ha iniziato l’anno scorso a sette anni. E siccome era da solo, non conosceva nessuno, per i primi tre mesi stavo lì durante l’allenamento in modo che se guardava le gradinate mi vedeva ed era tranquillo. Non essendo un super sportivo questo gli ha dato sicurezza e ora continua ad andare a calcio volentieri, anche se io non sto più lì a guardarlo durante l’allenamento, e nelle giornate come oggi dove mi metto a giocare anche io!

Delle volte bisogna “sacrificarsi” un po’ all’inizio, poi, stando nel flusso, fare le cose per gli altri con lo spirito giusto fa bene anche a noi.

L’unica cosa un po’ triste che ho notato oggi era vedere un po’ di papà (al giorno d’oggi spesso sono i papà che seguono queste incombenze!) che stavano isolati con i loro telefonini. Anche se non li conoscevo volevo invitarli a giocare a pallone con me, l’altro papà e i fratellini accompagnatori. Ma poi penso che sia giusto che ognuno faccia quello che preferisce e quindi va bene così.

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