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EGO E ANIMA

Ho letto di recente il libro di Scardovelli “L’amore è un’azione”. Ho trovato interessante soprattutto la prima parte in cui fa una distinzione netta tra due atteggiamenti opposti di vita. Possiamo passare la nostra vita mossi dall’Ego o mossi dall’Anima.

Ognuno di noi nell’arco della sua vita è stato ferito, per questo la nostra anima si è nascosta dietro a dei meccanismi di difesa o a delle patologie, ed è allora che è subentrato l’Ego. A mio parere L’Ego si può definire come una parte ferita che vuole la rivincita su tutto quello che è andato storto nell’infanzia e nell’adolescenza: vuole più soldi, più potere, più riconoscimento. Vuole poter lamentarsi e non prendere in mano la vita. Questa parte di noi va capita e accettata, magari anche tranquillizzata più volte, ma, se vogliamo vivere felici dobbiamo seguire la nostra anima e non il nostro Ego.

Dobbiamo, come dice Scardovelli nel titolo del suo libro, fare un’azione che ci indirizzi verso la parte migliore di noi.

L’Anima è quella parte che in Psicosintesi viene chiamata il Sè, che è in contatto con Dio, con l’Amore Universale. L’Anima vuole amare e farsi amare, vuole avere compassione per chi soffre, vuole la bellezza, la Natura, la gioia.

Se però mettiamo il “pilota automantico” ci troveremo spesso a seguire l’Ego senza rendercene conto. Ma seguire l’Ego significa essere sempre meno felici e più insoddisfatti di noi e degli altri, sentiremo questa mancanza di “anima”.

La difficoltà, ma anche la sfida della vita sta proprio nel cercare di allinearci quotidianamente con la nostra Anima.

Prima di tutto bisogna essere consapevoli che, in ogni azione, in ogni gesto, in ogni parola, noi possiamo essere allineati con il Sè o con il nostro Ego. Scegliere l’anima è un’azione o come direbbe Assagioli è un atto di volontà, ma anche un allenamento.

Per capire se siamo sulla strada giusta vi propongo alcune domande che possono aiutarci:

  • Se oggi fosse il mio ultimo giorno qui sulla terra come vorrei passarlo?
  • Dicendo queste cose a mio marito (a mio figlio, a mia madre, a mia sorella…) sto dicendo quello che pensa la mia anima o sto cercando di affermarmi, farmi riconoscere?
  • Se potessi scegliere di essere “la parte migliore di me” come mi comporterei in questa situazione?
  • Sto scegliendo questa strada per amore o per orgoglio? Per passione o per riconoscimento?

L’Anima è mossa dall’Amore e dall’Unione con gli altri: l’Anima sa che siamo tutti connessi, l’Anima non critica, non emette giudizi, non si lamenta, non si da addosso. 

Tutte queste cose le fa l’Ego.

Ma attenzione non cadiamo nella trappola di voler annientare l’Ego: l’Ego è una parte di noi che ha avuto la sua funzione e, in certi momenti, vuole ancora proteggerci. L’Ego va amato come un bambino che punta i piedi, a cui dare ogni tanto qualche gratificazione. Possiamo sapere che è una parte meno evoluta di noi a cui va dato affetto, ma non va dato il timone della nostra nave altrimenti ci porterà fuori dalla rotta migliore. 

È utile inoltre ricordarci che in principio c’era l’Anima, che il bambino felice è naturalmente in contatto con Lei, il nostro obbiettivo è tornare lì.

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OCCHI DI GATTO

L’altra sera ero veramente spossata. La fine della quarantena ha regalato a molti di noi delle somatizzazioni da stress che si sono presentate alla riapertura, come se tutta la tensione accumulata fosse stata rilasciata improvvisamente. Io ho avuto una brutta gastrite e piano piano mi sto riprendendo, ma sono molto molto stanca. 

Insomma era venerdì sera e Alberto si apprestava ad andare al suo allenamento di water basket più pizza con amici dopo l’allenamento. So che ci tiene e si diverte, ma ci sono delle volte che “mors tua, vita mea” e l’idea di farmi la serata da sola coi bambini mi sembrava veramente una fatica insormontabile. Premetto che amo immensamente i mei bambini, ma, dopo essere stati rinchiusi per mesi a stretto contatto, litigano di continuo e la piccola, essendo nella fase oppositiva, è una bella “gatta da pelare”. Mi sono diretta da Alberto con aria affranta da cane bastonato e gli ho chiesto se poteva saltare la piscina. Lui avrà pensato lo stesso che ho pensato io: “mors tua, vita mea”, e così ha detto che lui sarebbe andato in piscina, ha fatto la borsa ed è scappato come un ladro. 

A certo punto ho pensato al libro il potere della Kabbalh, e anche se l’energia non era dalla mia, avevo la consapelvolezza che quando superi una tua difficoltà, quando non limiti la libertà dell’altro, quando ti affidi all’Universo, ecco che il problema svanisce, ed “entra più luce”. 

Ho pensato che non volevo che i mei figli ricordassero le serate soli con la mamma come il supplizio di stare insieme a un “gendarme isterico”, ma che le ricordassero con piacere, come delle serate in cui si può fare qualcosa di molto divertente e magari solitamente proibito. Per prima cosa abbiamo iniziato a cenare, Lorenzo (7 anni) mi ha chiesto di vedere una puntata di un cartone anni ‘80 di quelli che amavamo “noi adulti” quando eravamo piccoli . Abbiamo visto così una puntata di Occhi di gatto. Lui molto intrigato da queste bellissime “cattive”, Luce (2 anni e mezzo) non capiva molto ma si faceva contagiare dall’interesse del fratello. 

Abbiamo poi videochiamato la Nonna Niki, mia suocera, che i bambini adorano e a cui anch’io voglio molto bene e ci ė sembrato di passare un pezzo di serata con lei. Dopo ci siamo preparati per la notte, e già mi sentivo meglio, abbiamo letto un libro, poi mentre mi mettevo il pigiama ho iniziato a canticchiare la sigla di Occhi di gatto “Tre ragazze bellissime, sono tre ladre abilissime, tre sorelle furbissime…” allora Lorenzo mi ha supplicato di riascoltare la sigla, che in effetti è una delle canzoni più orecchiabili e coinvolgenti di Cristina d’Avena. Ed ecco la magia: la camera da letto si è trasformata in una discoteca con Lorenzo e Luce che saltavano scatenati sui cubi (il lettone) e io che ballavo con mosse e danze che mi ricordavano i balli latinoamericani di 15 anni fa al Cobà (locale milanese colombiano, sui Navigli, da me molto frequentato in gioventù).

 Dopo mezz’ora e più di balli eravamo tutti sudati, stanchi e felici. Ci siamo sdraiati al buio nel lettone ad ascoltare la meditazione di Enzo Liguori (maestro di Psicosintesi) che ha accompagnato i mei frugoletti nel sonno. Per chiudere in bellezza sono sgattaiolata in sala e mi sono vista una serie televisiva su Netflix (non vedo nè film nè telefim da secoli)!

Il potere della Kabbalh si è avverato: invece di buttarmi giù di morale ho provato ad affrontare i mei limiti, ho fatto felici i mei figli, ma anche la mia parte bambina che si sentiva triste e abbandonata e così ci siamo regalati una serata che rimarrà nella storia, mia e dei miei piccoli, per sempre.

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METTERE L’ANIMA

Spesso ci sentiamo affogati da mille cose da fare: lavoro, famiglia, figli, pagamento di multe – bollette- tasse – spese condominiali – bolli auto e moto e chi più ne ha più ne metta…

Sembra che il tempo per “noi stessi”, per lo svago, per il “piacere” non ci sia mai.

Anche io vivevo così fino a qualche tempo fa.

Poi qualcosa è cambiato.

Lo voglio raccontare riprendendo un pezzo del libro “Il miracolo della presenza mentale” del maestro vietnamita Thich Nhat Hanh (Thay) che lo rappresenta perfettamente.

Nel libro si riporta un colloquio fra il maestro e Allen, un suo caro amico. A un certo punto Thay gli chiede: “Molti dicono che creare una famiglia fa sentire meno soli e dà sicurezza. E’ vero?”

Allen risponde:

“Ho scoperto un modo per avere molto più tempo.
In passato, consideravo il tempo come se fosse suddiviso in tante parti distinte. Una parte la riservavo a mio figlio Joey, un’altra era per mia figlia Ana, un’altra la dedicavo alla mia compagna Sue e un’altra ancora alle faccende domestiche. Quello che rimaneva era il mio tempo personale. Potevo leggere, scrivere, fare ricerca, andare a passeggio.
Ora invece cerco di non dividerlo più.
Considero il tempo che passo con Joey e Ana come tempo mio. Quando aiuto Joey a fare i compiti cerco di fare in modo che il suo sia anche il mio tempo. Studio la lezione insieme a lui, mi godo la sua presenza e cerco di coinvolgermi in quello che facciamo. Il tempo dedicato a lui diventa il mio tempo. Con Sue è lo stesso. E il bello è che ora posso disporre di un tempo illimitato!”

Se al posto dei nomi dei figli Joey e Ana metto i nomi dei miei figli Lorenzo e Luce, e a al posto di quello della compagna Sue metto quello di mia moglie Eleonora, il pezzo sopra indicato descrive perfettamente la mia realtà.

Non è sempre stato così: per moltissimo tempo vivevo anche io con fatica tutti gli impegni che avere una famiglia comporta.

Sentivo fortissima la compressione del “mio tempo libero” a causa dei bisogni e delle esigenze dei miei figli e di mia moglie. Quando i bambini sono piccoli i sonni interrotti sono una costante e ancora adesso è così per me perché Luce ha ancora 2 anni e mezzo e a metà notte si sveglia perché vuole il “cocò” (biberon di latte) e bisogna cambiarle il pannolino…

Poi ci sono tutti gli altri bisogni dei figli che richiedono una costante presenza dei genitori: i compiti (io ho fatto poche volte i compiti con Lorenzo, Eleonora quotidianamente soprattutto con il lockdown), il gioco (i bambini mentre giocano hanno bisogno di qualcuno che giochi con loro o comunque di un adulto che li guardi mentre giocano…), le uscite per andare al parco giochi…

Svolgere queste attività con i figli in perenne conflitto con i nostri desideri “altri” (come ad esempio uscire per vedere gli amici, leggere un libro, andare a fare una partita a calcetto, vedere un film, scrivere un post 😊, …) non fa che toglierci energia preziosa e ci fa perdere il piacere che svolgere quelle attività in presenza mentale ci può dare…

Quando facciamo una cosa ma intanto pensiamo ad un’altra cosa che ci piacerebbe fare non siamo presenti a noi stessi (e agli altri) e ci perdiamo il gusto sia di quello che stiamo facendo sia di quello che desideriamo fare ma in quel momento non possiamo.

Adesso se devo interrompermi mentre scrivo per cambiare il pannolino a mia figlia Luce, mi godo quel momento giocando con lei tutto il tempo che sta sul fasciatoio, ridiamo insieme e poi mi rimetto a fare quello che stavo facendo.

Stessa cosa quando la piccola mi chiede di andare in camera sua a giocare coi lego. Iniziamo a costruire una casetta con passione insieme. Sentirci giocare divertendoci attira anche Lorenzo, che, incuriosito, viene a giocare con noi. A quel punto mi succede anche che, pian piano, posso allontanarmi e loro continuano a giocare insieme ed io posso concentrarmi anche su altre attività!

Il “trucco”, se così lo si può definire, ben espresso nelle parole di Allen ad inizio del Post, è quello di trovare un nostro ‘coinvolgimento’ mentre svolgiamo queste attività, una parte di noi che si diverta veramente.

Si potrebbe dire mettere un po’ “l’anima” in quello che facciamo.

Ci può stare una reazione iniziale del tipo “Uff… che noia… devo interrompere quello che stavo facendo per andare dietro ai bisogni di…”, ma se a questa reazione facciamo seguire un pensiero come: “Vabbè, me tocca, vediamo come possiamo divertirci facendo questa attività con mio figlio/ figlia…” il gioco è fatto.

Certo, ho comunque bisogno dei miei spazi, andare in piscina a giocare a water basket, vedere gli amici, fare i miei esercizi fisici e trovare qualche momento per me stesso, ma ricordarsi di fare le cose della vita di tutti i giorni con amore e cercando di divertirsi aiuta a vivere tutto quello che facciamo come “tempo nostro”, e possiamo sentirci meno sopraffatti dalle incombenze delle attività quotidiane.

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UP and DOWN

Molti di noi pensano di avere una personalità unica, con delle caratteristiche bene o male sempre uguali. In realtà la Psicologia ci insegna che durante la nostra vita interpretiamo diversi ruoli che si alternano come attori su un palcoscenico: in Psicosintesi tali ruoli vengono chiamati “Subpersonalità”. La nostra personalità è la somma di tutte le parti di noi, sia che ne siamo consapevoli o meno, e, oltre a queste, c’è anche una parte, l’Io, che osserva con distacco le altre singole parti o “Subpersonalità”. 

Ci capita spesso però di mettere il “pilota automatico” e di andare nel mondo identificati in una parte spesso “forte”, che potremmo definire “difensiva”: è quella parte che ti consente di lavorare, di mandare avanti la casa, crescere i figli… il tutto al tuo meglio possibile.

 Questa parte però per funzionare al suo massimo dell’efficacia chiude in cantina le emozioni perché se queste facessero irruzione nella vita di tutti i giorni, queste si rivelerebbero piuttosto scomode: immaginati a piangere disperata di fronte ai tuoi figli perché sei stanca, o perché tuo padre è malato. O immagina perderti d’animo di fronte alle fatiche sul lavoro e crollare davanti al tuo capo. Ecco sono situazioni non proprio funzionali alla vita di tutti i giorni. Allora si avanti un po’ in automatico, un po’ come un robot che cucina, lavora, fa lavatrici, fa fare i compiti, cambia pannolini, ecc. ecc. Questa parte spesso camuffa la tristezza con la rabbia per cui perde la pazienza per niente con i bambini, con il partner, oppure anche con i colleghi.

Può però capitare un evento che ti butta giù e ti fa entrare improvvisamente in una parte polare (una parte che ha effettivamente caratteristiche opposte alla parte “forte”): magari l’evento scatenante è una gravidanza, o una malattia, o un lutto, o un licenziamento. Allora entri in una parte triste e malinconica, una parte dolce e indifesa, spesso compassionevole con chi sta male. Questa parte viene spesso vista come scomoda perché non è UP, anzi è proprio DOWN, e la ritentiamo molto sconveniente, perché da piccoli ci hanno insegnato che dovremmo essere perfetti e sopratutto che non dovremmo esprimere le nostre emozioni.

Questa subpersonalità però ha una sua funzione: ogni ogni parte di noi che si presenta ha una funzione. 

Durante il mio lavoro personale e le visualizzazioni che ho fatto, ho visto che questa parte ha il cuore. È come se la parte “forte”, la “Up” fosse priva di cuore mentre la parte “Down” fosse tutta cuore. Sono due parti che si completano perché la prima è forte carica e efficiente, ma fredda… la seconda è triste e apatica, ma calda, affettuosa e empatica. 

A tal proposito mi viene in mente a una frase che disse il monaco zen Thich Nath Hanh a un seminario che frequentai nel 2008:

“Non vorrei che mio figlio nascesse in un mondo privo di sofferenza perché non imparerebbe la compassione”.

 Il contatto con le nostre parti ferite ci permette di recuperare il cuore che altrimenti lasceremmo troppo spesso in cantina. 

La sofferenza ci insegna a essere più umani e a entrare in empatia con la sofferenza del prossimo.

Certo non è auspicabile alternare queste due subpersonalità per tutta la vita: il “modello ideale” sarebbe prendere le parti buone della prima parte “UP” e le parti buone della seconda “DOWN” e metterle insieme, diventare così una persona forte con una grande mente e un grande cuore, come era Assagioli, e come sono alcune persone molto evolute. O anche come sono i bambini: “Se non tornate come bambini non entrerete nel regno dei cieli”, dice il Vangelo. I bambini sanno essere energici felici e affettuosi, ma anche tristi e arrabbiati all’occorrenza, in contatto semplicemente con le loro emozioni e capaci di vivere nel presente. 

Ma come si può attuare questa sintesi? 

Non è così facile ed è un processo che richiede molto tempo, spesso anni. Per la mia esperienza però ho capito che, se ci rendiamo conto di essere entrati troppo con il pilota automatico nella parte UP, possiamo fermarci, respirare e entrare in contatto col cuore.  Possiamo dirci: “Ecco ora sto diventando fredda, probabilmente non sto ascoltando le mie emozioni!” Oppure: “Sto facendo le cose in automatico, c’è bisogno di più cuore!” 

Fare le cose con amore ci può aiutare a creare una sintesi. “Ama e fa ciò che vuoi”, diceva Sant’Agostino. Se non riusciamo a entrare in contatto col cuore possiamo provare a scrivere il diario, a fare una preghiera, una meditazione. Possiamo chiedere alla nostra parte bambina perché si è ritirata, e di cosa avrebbe bisogno.

Se ci troviamo nella parte DOWN è più difficile recuperare le energie e ci può volere più tempo, per tornare a stare meglio.  Una pratica utile può essere fare qualcosa per gli altri: dando amore entriamo nel flusso dell’amore e in qualche modo lo diamo indirettamente anche a noi stessi. Per me, ad esempio, funzionano le seguenti cose:

  • fare un disegno con mio figlio,
  • fare un massaggio al mio compagno,
  • fare una chiamata a un’amica o a mia madre,
  • preparare qualcosa di buono da mangiare,
  • fare un regalo a qualcuno,
  • scrivere un post che possa aiutare gli altri oltre che noi stessi.

E’ importante ricordarsi che la parte DOWN è una delle parti di noi, ma non è la sola! Abbiamo sempre con noi anche parti forti e gioiose che ritorneranno quando ci saremo presi cura delle nostre emozioni dolorose.

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IMPARARE A STARE MALE

Spesso stiamo bene, e questo è buono.

Delle volte però stiamo male, può essere un male fisico o può essere una situazione difficile che dobbiamo gestire e ci genera sofferenza.

Se stare male è una condizione naturale dell’essere umano, imparare a stare male delle volte è una lezione che potremmo impiegare tutta la vita a fare nostra.

Quando stiamo male fisicamente andiamo da un dottore e ci facciamo prescrivere le medicine giuste per il nostro dolore.

Ma non sempre il nostro dolore passa subito.

Allora ci ritroviamo a preoccuparci perché non guariamo immediatamente, ci prefiguriamo chissà quali altri dolori e mali, e questa sofferenza psicologica data dalle preoccupazioni si somma al dolore fisico facendoci stare male doppiamente.

Oppure pensiamo a tutte le cose che non possiamo fare in quel periodo perché stiamo male e soffriamo ancora di più.

A me ad esempio è capitato quando, una estate di qualche anno fa, mi ero fatto male a un dito del piede giocando a calcetto.

Avevo giocato la partita a Milano, poi mi ero messo in macchina ed avevo guidato fino a Genova, ma siccome il dito continuava a farmi male, sono andato al pronto soccorso di San Martino e mi hanno fatto i raggi.

Dopo poco il responso: il dito era rotto. 

Così mi hanno ingessato il piede e sono entrato in ansia perché non potevo andare al lavoro per un po’ di giorni. In più avevo dovuto saltare un week end di mare programmato e degli incontri sportivi a cui tenevo molto (che a pensarci oggi non erano per nulla importanti, ma in quel momento mi sembravano vitali…). 

E così oltre a stare male per il dito stavo male perché non potevo fare tutto quello che avevo pianificato e… non potevo neanche vedere i miei amici!

Anche quando viviamo una situazione difficile che ci genera sofferenza può capitarci di stare parecchio male.

Può succedere di vivere una relazione che non ci appaga ma che facciamo fatica a chiudere. Oltre alla sofferenza data dalla relazione che “non va” c’è tutta una sofferenza aggiuntiva legata ai sensi di colpa perché ci sembra di non trovare mai la persona giusta, di essere sempre insoddisfatti in amore, di non riuscire a dire quello che sentiamo al nostro partner…

Oppure possiamo vivere con difficoltà certe relazioni sul lavoro, con il nostro capo o con i collaboratori. Anche in questi casi potremmo ritrovarci ad affliggerci perché oltre ai problemi di natura relazionale pensiamo che anche il lavoro che facciamo non va bene, non è quello giusto per noi, ma ci troviamo costretti a continuare a stare in quella situazione perché abbiamo bisogno dello stipendio e non pensiamo di riuscire a trovare nulla di meglio…

A me è capitato in un periodo della mia vita di soffrire sul lavoro perché percepivo che c’erano delle grandi aspettative su di me ma io mi sentivo inadeguato per quel ruolo. Così mi giudicavo negativamente perché non ero abbastanza bravo.

Questa situazione, prolungata nel tempo, da “psicologica” è diventata fisica portandomi in dono anche una bella gastrite.

Cosa fare quando ci si trova in queste situazioni?

  1. Il primo passo è riconoscere che ci si trova in difficoltà e accettare che questo possa capitare: non sempre la vita ci regala gioie, delle volte dobbiamo passare attraverso situazioni difficili. Per fortuna anche queste hanno una durata: iniziano, si sviluppano… ma poi finiscono!
  2. Il secondo passo è riconoscere la situazione difficile: perché sto soffrendo? In questa fase dobbiamo riconoscere la causa ‘primaria’ della nostra sofferenza: il dito rotto, la relazione sentimentale che non sta andando in quel periodo, i problemi col capo o con qualche collaboratore, la gastrite.
  3. Il terzo passo è riconoscere “la sofferenza aggiuntiva”: non è che per caso mi sto tormentando oltremisura per qualcosa negativo che mi è successo? Questa è la fase più delicata perché spesso siamo così identificati nella nostra sofferenza che facciamo fatica a distinguere quella ‘originaria’ da quella ‘aggiuntiva’. Spesso questa angoscia aggiuntiva viene da una parte di noi che si giudica (sensi di colpa, sensi di inadeguatezza, …) o che non riesce ad accettare la realtà (“Caro Alberto, hai il dito del piede rotto, adesso non puoi andare a giocare a beach-volley, calcetto, squash… non è una scelta, è un dato di fatto!”). Questa parte giudicante viene quasi sempre da dei nostri modelli IDEALIZZATI di come dovremmo essere: infrangibili, perfetti nelle relazioni amorose, stellari sul lavoro, e così via…
  4. La quarta fase è riconoscere la tristezza che il fatto di non essere perfetti ci provoca: dobbiamo accettare la nostra vulnerabilità e aspettare che il dolore passi, senza fretta. In genere quando arriviamo alla quarta fase siamo già pronti per sciogliere parte del dolore che stiamo vivendo, in pratica, abbiamo imparato a stare male.

Sapere che non può andare sempre tutto bene nella vita (1º passo) ci aiuta a ripianficare la nostra vita in funzione di come stiamo, con serenità. 

Riconoscere la fonte primaria della sofferenza ci aiuta a trovare i rimedi che ci permetteranno di stare meglio (2º passo).

Vedere le sofferenze secondarie ‘aggiuntive’ (3º passo) ci aiuta a guarire delle ferite “interiori” che magari ci portiamo dentro da anni e che ci hanno sempre condizionato senza che ce ne rendessimo conto.

Stare con la tristezza (4º passo) ci consente di accettare la realtà così come è, di vivere il momento presente e di prenderci cura di noi stessi.

Imparare a stare male è un’arte, fatta di riconoscimento e accettazione che ci aiuta a crescere in consapevolezza e in potere dì guarigione.

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“LESS IS MORE”: PUÒ ESSERE UNA LEGGE SPIRITUALE?

Molti di noi hanno sentito la frase “less is more”, che tradotto in modo semplice vuol dire “meno è più”.

“Meno è più” è un gioco di parole, una traduzione più vicina al significato originario è “Meno è meglio”.

Tale espressione ha una lunga storia e innumerevoli ambiti di applicazione, vediamone alcuni:

  • “Less is more” viene da una poesia di Robert Browning. In un suo poema c’era il protagonista, un pittore chiamato Andrea del Sarto, che aveva un talento ineguagliabile, ma dipingeva senza passione. Il pittore, parlando con l’amata Lucrezia, confessava come alcuni pittori meno dotati di lui (LESS) dipingevano con il cuore e così facendo raggiungevano traguardi più elevati (MORE): “…in loro brilla una luce divina più autentica… Well, less is more, Lucrezia”.
  • L’architetto tedesco Ludwig Mies van der Rohe, colui che ha reso celebre questo motto nella nostra contemporaneità già negli anni ‘50, aveva svelato che l’essenzialità nei progetti e nelle costruzioni (LESS) raggiungeva le più alte vette della bellezza e della funzionalità (MORE).
  • “Less is more” è stato anche il cavallo di battaglia nella filosofia di vita dello “Space clearing”: in quest’ambito la pulizia ed essenzialità negli arredi di casa (e degli armadi!) “LESS” porta ad una maggior leggerezza e, paradossalmente, ricchezza nella vita “MORE”. 
  • Anche le aziende dell’high tech si sono appropriate di questo motto e così Apple riciclò la frase pubblicizzando il suo innovativo telefono iPhone che aveva un solo pulsante (LESS) mentre i suoi competitor (es. Blackberry) avevano tastiere fisiche pari a quelle di un computer: la semplificazione portata da Apple conduceva ad una incredibile facilità e immediatezza nell’utilizzo dello smartphone garantendo un’esperienza più ricca (MORE) (quello che i pubblicitari di Apple non avevano detto è però che alla fine a parità di funzioni del telefono, il suo iPhone costava molto di più degli altri, quello sì che è il vero MORE!).

Oggi ci troviamo in una ruota che gira più o meno così: 

  1. la pubblicità, il confronto con le altre persone, i modelli che ci vengono proposti nei cartelloni pubblicitari e nelle riviste, ci spinge continuamente verso nuovi consumi, dagli oggetti di uso comune come cellulari, televisioni, tablet, computer, elettrodomestici, auto… per arrivare alle vacanze, alle cene, ai soggiorni in centri di benessere, …
  2. tutti questi messaggi vengono da noi elaborati più o meno consciamente come se la nostra soddisfazione, la nostra gioia può nascere solo se possiamo acquistare i beni che ci vengono pubblicizzati
  3. naturalmente questi beni hanno diversi prezzi: più è alto il prezzo maggiore sembra il benessere che questi oggetti ci possono procurare…
  4. quando abbiamo raggiunto la soglia per permetterci uno di questi oggetti ci sembra che quello non sia abbastanza per noi e desideriamo quello ‘un pò più caro’, che magari in quel momento non possiamo permetterci… ad esempio se abbiamo 10.000 euro sul conto ed abbiamo bisogno di un’auto, non ci verrà da comprare quella che costa 10.000 euro, ma magari quella che costa 15.000 euro che ha qualche optional in più, che ci sembra più bella… e se anche compreremo quella da 10.000 euro una parte di noi continuerà a guardare quella da 15.000 euro non facendoci godere l’auto nuova che abbiamo appena acquistato
  5. ogni mese siamo costretti a lavorare moltissimo per poter ripagare i debiti contratti o tutti gli acquisti che continuamente ci viene da fare… e siamo anche perennemente insoddisfatti perchè non abbiamo quello che ci sembra di desiderare…

Come spezzare questa catena?

Negli ultimi anni di vita sto imparando un’altra applicazione del principio “less is more”, una applicazione che in qualche modo definirei pratica e spirituale. 

Tutto parte da alcune semplici domande che possiamo rivolgere a noi stessi: 

  • “Abbiamo davvero bisogno di tutto quello che ci sembra di desiderare?”
  • “Queste cose ci rendono veramente felici?”
  • “Se dovessimo pagare con ore di tempo libero un acquisto di una cosa nuova, magari rinunciando al week end, continueremmo ad acquistare tutto quello che compriamo?”
  • “Se potessimo vivere con pochi soldi, non saremmo felici di mantenerci lavorando meno ore e dedicando il tempo che ci avanza alle cose che ci appassionano di più?”

Ho vissuto una parte della mia vita dove avevo relativamente poche cose e stavo tanto fuori ed ero piuttosto felice. 

Poi ho investito molto nello studio e nel lavoro ed ho ottenuto tante cose che desideravo ma ho ridotto drasticamente il mio tempo libero.

Oggi penso che potrei essere più felice se potessi lavorare meno (diminuendo così anche lo stress) e se potessi passare più tempo all’aria aperta, con le persone a cui voglio bene e dedicandomi maggiormente alle mie passioni.

Negli ultimissimi tempi ho deciso di darmi uno stile di vita più essenziale, senza per questo rinunciare a niente. 

Ad esempio ho pensato di acquistare una bici da utilizzare in città ed ho guardato cosa offriva il mercato.

Subito nei negozi dove sono andato mi hanno proposto bici super leggere con mille comfort (a partire da 350 €) oppure bici elettriche con pedalata assistita che raggiungono velocità ragguardevoli con pochissimo sforzo (a partire da 1.500 euro)… tutte molto belle naturalmente e altrettanto costose…

Sono tornato a casa e mi sono chiesto: perchè desidero una bici?

Semplice, per fare qualche piccolo spostamento in città, magari anche con mia moglie e i bambini, e se faccio anche un po’ di fatica meglio che così mi tengo in forma…

Così ho optato per una bici usata che costa poco più di 100 euro, un seggiolino usato per portare la piccola e sono molto felice del mio acquisto (il biciclettaio mi ha dato anche 3 mesi di garanzia se qualcosa non va!).

Ecco il mio “Less is more”: dipendere meno dagli acquisti, dalle cose costose (LESS) e guadagnare in vita, soldi, libertà e tempo (MORE).

Spesso con gli acquisti cerchiamo di colmare un vuoto, ricerchiamo una pienezza di vita che però non viene mai soddisfatta dallo shopping che facciamo. Per qualche attimo proviamo una scarica di adrenalina, magari quando effettuiamo l’acquisto, o quando riceviamo il bene che abbiamo acquistato, ma dopo pochi attimi, o secondi, il vuoto che abbiamo si fa risentire con la stessa intensità di prima.

La verità è che quel vuoto si colma solo tramite il contatto con l’anima

Tale contatto però non è soddisfatto dal fare acquisti, ma dal fare cose nella nostra vita che ci rendono veramente felici.

Non riempirci di beni, di cose materiali, lascia spazio alla nostra mente, alla nostra anima di ritrovare se stessa, di ritrovare il contatto con le cose semplici che ci danno la vera gioia.

Quando si arriva a fare veramente questo passaggio, ci si rende conto che tanti bisogni non sono reali, che la semplicità nella vita è più ricca di mille acquisti compulsivi, che una passeggiata all’aria aperta in un posto naturale ci fa sentire meglio che stare sdraiati sul divano a comprare oggetti su Amazon, che comprare una bici usata non è rinunciare ad averne una super moderna e leggera, ma è avere una bici in più che prima non si aveva e che ci consente di muoverci in modo diverso in città facendoci godere l’estate… magari portando dietro la nostra piccola di due anni e mezzo e cantando con lei mentre si pedala!

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